Dicono di noi

«Noi, vittime della giustizia che non c’è»

“Violenza e informazione”. Di questo si è parlato ieri pomeriggio, al Parco Matilde di Carpineti, a conclusione della due giorni intitolata “Insieme contro la violenza alle donne”. Ad organizzare il meeting l’associazione Modem (Movimento donne e minori), Comune di Carpineti, Provincia di Reggio e associazione Nondasola. Ieri pomeriggio, al tavolo, Luciano Palmerino autore della trasmissione televisiva “Amore criminale”, Chiara Cabassa per la Gazzetta di Reggio, Cristina Provenzano per Trc Modena, Adriano Arati del giornale di Reggio, Dante Davalli dell’associazione La Caramella Buona, Pietro Ferrari per Redacon. A rappresentare l’associazione Nondasola, Elisa Bianchi. “Padrona” di casa, Marzia Schenetti, che venerdì mattina aveva presentato il suo libro autobiografico “Il Gentiluomo”.
Ma come deve affrontare la stampa il tema della violenza sulle donne? Tante sono le speranze riposte nei media sia da parte di chi ha subito violenze o è vittima di stalking, sia da parte di un’associazione come Nondasola che punta tutto sul “fare rete”. Quello che viene chiesto alla stampa è di «non cavalcare i temi della passionalità, della gelosia, del raptus». Un approccio che non rende giustizia alle vittime e finisce per attenuare le colpe del “carnefice”. Ma è soprattutto il sistema giudiziario ad essere messo sotto accusa con la durezza di chi in tribunale c’è stato pagando due volte le violenze subite. Due le testimonianze esemplari.
Sobrio, dignitoso, duro, l’intervento di Giovanna Ferrari, madre di Giulia Galiotto uccisa dal marito l’11 febbraio 2009. «La vera battaglia - dice - non è limitata all’elaborazione del lutto ma prosegue quando si deve lottare affinché le istituzioni riconoscano le vittime come tali. Una famiglia, ferita nei suoi affetti più profondi, si trova ad affrontare una lotta impari contro il sistema giudiziario. Io sono particolarmente indignata - continua - perché Giulia era mia figlia e il calvario che abbiamo vissuto nel corso del processo di primo grado ci ha segnato, umiliato, devastato ancora di più dell’orrore assurdo della sua morte». «Si tratta di denunciare un sistema - prosegue Giovanna Ferrari - che tende a concedere il massimo delle attenuanti , ma le attenuanti non ci devono essere. E invece il gioco spesso consiste nello scaricare le colpe sulla vittima. Resiste nelle aule dei tribunali quel fondo di maschilismo in nome del quale si giustifica persino un omicidio». «Eppure - conclude la madre della giovane assassinata - la verità è semplice. Bisogna semplicemente prendere atto che uccidere, picchiare, distruggere un essere umano è “male”».
«Piacere, sono Daniela Stalking». E’ così che si presenta Daniela Franchini che da sei anni sta sfuggendo al suo stalker nonchè ex convivente. Ma ora ha deciso di dire basta, di uscire allo scoperto quel tanto che basta per denunciare la sua incredibile storia senza per questo consegnarsi al suo aguzzino. «In 6 anni ho presentato 9 denunce. La prima risale a quando mio figlio era ancora minorenne e lui, in mezzo alla strada, ha detto rivolto a mio figlio: “Vi ucciderò tutti e due, prima te e poi tua madre”. L’8 maggio scorso il processo: «Io c’ero, lui non si è nemmeno presentato in aula. La sentenza è stata per me devastante: dopo vari sconti di pena gli sono stati 10 mesi con la condizionale. Ora è libero, senza nemmeno un provvedimento restrittivo. Così ha potuto continuare a molestarmi: una settimana dopo il processo era già davanti al mio negozio, e così ha continuato a fare nei giorni seguenti. Fino a quando il 30 giugno ho preso una decisione che non potevo più rimandare: ho chiuso due negozi, la mia casa a Formigine, e con mia madre e mio figlio sono fuggita in un luogo segreto. Ma non mi sento sicura. Vivo chiusa in casa, il binocolo sulla scrivania, per andare a fare la spesa faccio chilometri perché evito le strade più trafficate».
Una storia esemplare di cosa può significare denunciare un uomo per stalking.
«Lui ha vinto - trae le conclusioni Daniela - ed è libero. Io vivo nel terrore e sono costretta a nascondermi. Con me porto sempre il mio book dove, attraverso le denunce, le carte del tribunale, gli articoli di giornale, viene raccontata la mia storia. E l’ho detto alle forze dell’ordine. Così se mi troveranno morta, non dovranno andare troppo lontano per trovare l’omicida».
«Con il processo dell’8 maggio - conclude Daniela - è stato fatto un sopruso non solo a me ma anche a una donna di 70 anni (mia madre) e a mio figlio che non si meritavano una vita così. E la colpa è solo di una giustizia che giustizia non è».